''Shakespeare era Inglese?'' di Alicia Maksimova | | Stampa | |
"Was Shakespeare English?" offre un punto di vista nuovo, audace e controverso sull'identità del grande drammaturgo. Russa di origine, la regista londinese Alicia Maksimova, ci accompagna in un viaggio coinvolgente dallo Stretto di Messina a Venezia, Verona, Stratford-upon-Avon, e ancora in Sicilia per un mesmerico finale sulla piccola isola eolia che ha ispirato The Tempest. Diario di viaggio seducente, splendidamente girato e provocatoriamente sostenuto, questo audace docu-viaggio offre uno Shakespeare che è sia una patata bollente per il nostro tempo sia un artista supremo per secoli. 97 minuti, 2016.
Alicia Maksimova ha creato un capolavoro. Questo non lo dico per farle un complimento di circostanza, vedendo il suo film si capisce che considerarlo un capolavoro è una semplice constatazione. Motivo però la mia affermazione evitando cosi di sembrare celebrativo in modo fittizio. Intanto comincio con il dire che il film è commovente data la bellezza delle immagini, che prese singolarmente sono bellissime fotografie - mi hanno ricordato, in certi momenti, i fermi immagini delle ville inglesi in Barry Lindon di Stanley Kubrick. Si denota così la profonda sensibilità e preparazione artistica di questa regista, sensibilità, soprattutto, che riesce a far vibrare l'essenza della bellezza nell'animo dello spettatore.
Il film oltre ad essere bello a livello estetico è profondamente significativo nel senso che crea il significativo dubbio, amletico in questo caso, se Shakespeare può essere o non essere Inglese. In un crescendo 'informativo' alla fine del film il dubbio diventa quasi una certezza, se non addirittura una certezza senza 'quasi'. Il tutto raccontato con la leggerezza di uno spirito romantico, ma disincantato, non assolutamente dogmatico ma ragionevolmente accettabile anche da quelli che sono fermamente ''Stratfordiani'', ammesso che siano persone aperte al dialogo. Infatti credo che anche negli Stratfordiani, guardando questo film, possa nascere il dubbio, sicuramente non confessabile, che Shakespeare non sia Inglese. Che loro questo non lo ammetteranno mai è scontato - sappiamo perché, o possiamo immaginare perché, e se non ci riusciamo proviamo a pensare al giro d'affari che crea il brand Shakespeare per l'inghilterra, ed in particolare per Stratford, e forse sapendo che l'indotto supera i cinque miliardi di sterline all'anno potrebbe far si che si accenda la nostra immaginazione - ma d'altronde è anche scontato che a noi, almeno a me, che loro non lo ammettano importa poco. Tanto, come suggerisce il film, ''la verità prima o poi verrà fuori'', e le verità raccontate nel film non sono gridate, ma sussurrate dolcemente. Questo ne aumenta la potenza, proprio come il morbido crescendo del violino, in alcune parti, aumenta la potenza delle immagini. Ed è un messaggio che prescinde dal soggetto che si sta trattando, trasformando quello che può chiamarsi un docufilm in qualcosa di diverso da un reportage impersonale per diventare in effetti semplicemente arte. Non subirà gli effetti del tempo dato che contiene un messaggio universale che sfugge dalla semplice attualità, un messaggio formato da moltissime sfumature di significato, e ampi contesti semantici, che vanno ricercati nel susseguirsi delle immagini. Quindi ogni immagine, che scorre quasi come se non fosse toccata dal tempo, diventa un racconto in se che parla non di un particolare tema ma della vita stessa, nelle sue iridescenti e molteplici sfumature, una vita che viene espressa con gioia anche nel sorriso di uno zingaro che suona felice la fisarmonica per le strade di Venezia, non curandosi del futuro e forse neanche del passato ma solo del suo eterno presente. In tutto questo la presenza dell'autrice nel film, soprattutto quando le fa da contrappunto la voce del violino, appare come una mistica sirena che canta la sua verità. L'eleganza dei suoi movimenti, il suo misterioso silenzio, i suoi passi cadenzati, l'apparire solo di schiena e mai frontalmente, aumentano la drammaticità delle verità che sta raccontando. Ma siccome il suo volto non si vede mai, come messaggio implicito instigha l'idea che i misteri in ogni caso non possono essere completamente svelati. C'è un ''velo'' che nasconde ogni verità, sembra dire la sua presenza nel film, e questo velo non cade definitivamente. Quindi della verità, qualunque essa sia, rimarrà comunque qualcosa che ci sfugge, come appunto il volto dell'autrice nel film, di cui si immagina solo la fattezza ma che nella realtà non è dato conoscere. Ciò che è dato conoscere è invece la realtà storica attraverso i fatti concreti raccontati nel film. Concetto questo che viene infatti sottolineato da un'accurata ricostruzione storica. Per esempio, diversamente da chi sostiene che Shakespeare non conoscesse bene l'Italia - motivo ricorrente nei testi di molti studiosi Inglesi - nel film si propongono dati di fatto che raccontano una versione diversa, e su questo dobbiamo confrontarci. Ecco quindi un altro messaggio importante del film, e cioè si possono raccontare tante versioni della stessa verità ma ciò a cui dobbiamo attenerci è principalmente quello che emerge dai dati di fatto, possibilmente certi ed univoci nella loro interpretazione. In questo caso tra i tanti esempi che possiamo fare c'è da dire che, come spiegato nel flim, il primo monumento di Shaksper a Stratford rappresentava un uomo - non Shakespeare ma Shaksper - che teneva un sacco di grano tra le mani, non una penna. Poi si è optato per sostituire il sacco di grano con penna e calamaio. Se questo è il metodo, cioè mistificare i dati di fatto, come si pretende di essere creduti? Di quale verità volete essere rappresentanti, voi Stratfordiani? Infatti fin da subito, accorgendovi del business che vi era piovuto dal cielo, avete cominciato a mistificare i dati di fatto. Così avete organizzato una visione più opportuna da presentare agli ignari visitatori, desiderosi di sentirsi raccontare della genialità di Shakespeare. State raccontando davvero la verità di una persona, cioè William Shaksper, che nel suo primo monumento funebre non aveva tra le mani una penna ma un sacco di grano? E' davvero lui allora il grande drammaturgo William Shakespeare? Oppure il vero autore è qualcuno che con Stratford non ha niente a che fare? La risposta di Stratford alle silenziose domande avanzate nel film - silenzio che fa molto rumore e non è certo molto rumore per niente - è evanescente, e scorre via indifferente alle critiche come l'acqua del fiume Avon. E qui, nei vari cambi di prospettiva, tra l'emozione di trovarsi vicini alla verità o ad esserne completamente lontani, la musica puntualizza profonde differenze e sottolinea perfettamente la contrapposizione tra l'Italia di Shakespeare e la Stratford di Shaksper: profonda, colta, impregnata di storia e di arte la prima, anonima e insignificante la seconda. ''Può nascere un genio in un simile posto?'' si chiese Charlie Chaplin parlando di Stratford. E anche qui i fermi immagine, miscelati sapientemente al variare tematico delle scene, sottolineano la profondità del loro significato. Ed ecco allora che da Stratford si passa a Venezia e qui troviamo l'autrice animata da una forza esplosiva, sempre rimarcata dal suo fascino discreto e misterioso, attraverso la quale suona con veemenza il pianoforte quasi che la sua fisicità artistica volesse affermare con decisione la verità che sta raccontando. Di li a poco la lunga sequenza che riprende un singolo oggetto - un palo di legno che emerge fuori dall'acqua tremolante di un canale, prima che l'autrice appaia di nuovo di spalle in un ponticello di legno - sembra sottolineare con la stessa decisione con cui lei suona il piano che ''la verità prima o poi emergerà per diventare evidente''. Film bellissimo quindi, sapiente, colto ma senza essere elitario o spocchioso, profondo, emozionante, semplice nella sua complessità e quindi chiaro, facilmente leggibile e nello stesso tempo impegnativo, avvincente in modo tale da invitare a riflettere sul tema di fondo che si propone con eleganza, ''niente è scontato''. Nonostante questo è comunque portatore di verità inconfutabili, come l'esistenza delle vie d'acqua che nel 1500 da Milano portavano al mare e di cui Shakespeare parla nella Tempesta. Anche qui verità negate, se non addirittura derise dagli Stratfordiani. Dulcis in fundo l'autrice, splendida Dea marina, alla fine del film dissolverà i dubbi su chi sia Shakespeare così come il tempo, nella Tempesta, dissolverà ogni cosa lasciando solo la ''nuda verità''. Verità che, ancora una volta, non può essere vista completamente. Infatti l'oscurità avvolge il suo corpo nudo, di cui si può scorgere solo la figura ma non i particolari. In queste immagini c'è un richiamo fortissimo alle concezioni filosofiche di Giordano Bruno, ai suoi caravaggeschi giochi di luci e di ombre e in particolare alle sue ''Ombre delle idee'', quel Bruno che guarda caso è una presenza fondamentale nei testi di Shakespeare, soprattutto nella Tempesta. Si conclude così il film, con le immagini di una sirena che contempla la mobilità dell'acqua, i suoi infiniti cambiamenti di colore, e quindi ancora una volta con l'idea che niente è fermamente ''stabilito''. Come sfondo a questo concetto si propone il romanticismo del tramonto, che suggerisce come tutto sfugga via in assenza di luce, quella luce che da sempre è simbolo per eccelenza di verità come appunto insegna Bruno. La voce del violino accompagna le tematiche tratte, facendo vibrare profondamente l'emozione, e le note del pianoforte sostengono il tutto confermando armonicamente che ciò che è stato creato è un meraviglioso canto. Un inno alla ricerca spassionata e senza pregiudizi, che ancora una volta è il messaggio essenziale di Shakespeare e ancor di più del suo esclusivo e personale maestro, Giordano Bruno. Che questo sia anche il messaggio primario del film impone che ne consegua un clamoroso successo soprattutto tra quelli che rifiutano i dogmi e scelgono il libero pensiero.
© Saul Gerevini 2017 |