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William Shakespeare, ovvero John Florio: un fiorentino alla conquista del mondo edito da Pilgrim edizioni e distribuito da EdiQ (vd sez. 'Link utili').
Non avrei mai intrapreso un’avventura impegnativa come quella di scrivere un libro su Shakespeare se non avessi letto il libro The Genius of Shakespeare del professor Jonathan Bate, ex membro della prestigiosa Trinity Hall di Cambridge (GB) e prestigioso insegnante universitario di letteratura inglese. Questo perché i modi e i toni che il professor Bate ha usato per descrivere il raffinato e colto intellettuale anglo-italiano John Florio sono assolutamente offensivi, come avremo modo di vedere. Bate, quindi, meritava una risposta! Soprattutto perché quando lessi il suo libro, nel 1998, avevo già una idea precisa di quello che poteva essere stato il rapporto tra Florio e Shakespeare. Per me Florio è l’alter-ego di Shakespeare, idea che Bate rigetta ironicamente. La mia risposta a Bate, però, doveva essere tale da controbattere ‘obiettivamente’ la logica attraverso la quale egli, nel suo libro, ha cercato di annientare in poche pagine l’idea che Florio potesse essere il vero Shakespeare. Bate infatti, sicuramente riferendosi agli studi di John Harding (un ricercatore di Liverpool che proponeva Florio come ‘mente’ delle opere di Shakespeare), pur ammettendo l’enorme importanza di Florio per lo sviluppo artistico del Bardo afferma che ‘la mente di Florio’ è presente nei suoi testi, non perché Florio sia il suo alter-ego, come sostiene con coerenza e profondissima competenza Harding (però più ‘intuitivamente’ che ‘oggettivamente’, come dice sua figlia Giulia che sta continuando le ricerce di suo padre), ma solo perché Shakespeare ‘lesse’ attentamente le opere di Florio e ne ‘rubò le frasi’. Quindi, la logica di Bate è questa: “Shakespeare era un lettore così vorace e capace da impossessarsi di ‘tutto e di tutti’, anche della ‘mente’ di Florio’’, implicando di conseguenza che non è possibile considerare Florio come l’alter-ego di Shakespeare. La tesi di uno Shakespeare che legge ‘accanitamente di tutto’, tesi ‘non dimostrabile con dati di fatto’, va per la maggiore. Bate da questo punto di vista è un privilegiato, perché può affermare cose che non sono dimostrabili (e quindi poco ‘oggettive’) e renderle automaticamente ‘oggettive’ in virtù della sua autorità. Il mio approccio, allora, nel rispondere a Bate, è stato quello di trovare ‘dati oggettivi’ attraverso i quali è possibile dimostrare indiscutibilmente che Florio è l’alter-ego di Shakespeare. Dovevo attenermi il più possibile ai fatti, evitando al massimo le supposizioni (che Bate, nel suo the Genius of Shakespeare, usa estensivamente), dato che per loro natura prestano troppo il fianco ad essere rigettate: supposizioni che caratterizzarono l’opera di Santi Paladino, per esempio, che intorno agli anni ’50, nel suo libro Un Italiano autore delle opere di Shakespeare, scrisse, tra l’altro, che John Florio veniva chiamato ‘Johannes Factotum’, senza però spiegare come era arrivato a questa conclusione. La sua affermazione quindi appariva gratuita. Ci sono ragioni specifiche, invece, per cui John Florio venne chiamato ‘Johannes Factotum’, ragioni che Paladino non è riuscito a spiegare. Nel mio libro ho spiegato, in termini ‘oggettivi’, perché Florio veniva chiamato ‘Johannes Factotum’. Queste ragioni allora creano un collegamento ‘oggettivo’ con quel ‘Johannes Factotum’ che troviamo nella famosa critica a Shake-scene fatta da Robert Greene nel suo Groatsworth (1592). La mancanza di ‘dati oggetivi’ nelle analisi (geniali a mio avviso) di Paladino lo esposero alla distruttiva ed ironica critica degli studiosi. Per trovare questi ‘dati oggettivi’ non ho evidenziato solo tutte le competenze, le conoscenze e le capacità di Florio presenti nei testi di Shakespeare, perché questi ‘dati’ vengono invalidati dagli studiosi come Bate con un semplice ‘Shakespeare leggeva accanitamente’, ma invece ho anche ‘analizzato’ quale è stato il rapporto che è intercorso tra Florio e Shakespeare nella vita reale, rapporto che nessuno fino ad oggi ha indagato correttamente, a parte Giulia Harding. Da questa analisi sono arrivato a trovare quei ‘dati oggettivi’ che giustificano la presenza delle enormi competenze di Florio nei testi di Shakespeare: troviamo le competenze di Florio nei testi di Shakespeare non perché L’uomo di Stratford ‘lesse’ voracemente i lavori di Florio, ma perché Florio lavorò attivamente alla costruzione di quelle opere. Da queste analisi è emersa una verità sconosciuta, e cioè il fatto che tra Florio e Shakespeare c’era una intensa collaborazione. Affermazione questa, che farebbe aborrire molti studiosi. Come vedremo, l’elemento fondamentale che porta a svelare questa ‘sconosciuta verità’ è riposto nella relazione John Florio/Thomas Nashe. Mi è bastato leggere con attenzione l’introduzione ai Secondi Frutti (1591) di Florio e trovare che in questa introduzione c’è una pesantissima critica di Florio al libro Morning Garment (1590) di Robert Greene (il grande accusatore di Shakespeare) per trovare l’inizio del filo di Arianna: la polemica tra Florio e Nashe si è manifestata di conseguenza. Da sempre Florio e Nashe sono stati considerati ‘amici appartenenti alla stessa fazione letteraria’ dagli studiosi, la Frences Yates è una di questi studiosi, mentre invece erano mortali nemici! Seguendo le tracce delle loro polemiche, nei loro scritti e in quelli di Robert Greene (anche lui nemico di Florio), emerge quindi, ‘oggettivamente’, un inedito volto di Shakespeare. Allora tanti dubbi mi si sono chiariti ed una nuova prospettiva è affiorata in superficie. Infatti, mi sono chiesto molte volte perché Bate, intellettuale molto conosciuto ed apprezzato nell’ambito della critica shakespeariana, senza alcuna motivazione avesse ritratto John Florio in una maniera così offensiva e negativa. Man mano che approfondivo le ricerche su Florio e Shakespeare le risposte emergevano abbondanti: l’influenza di Florio nei lavori e nella vita di Shakespeare è tale che è meglio distruggere la sua figura, prima che qualcuno ne intraveda la sua fondamentale importanza. Infatti questo nostro connazionale è l’unico punto di riferimento certo per capire profondamente le opere del grande drammaturgo. Poter capire profondamente Shakespeare solo attraverso Florio, un esule italiano di origini ebraiche, evidentemente è qualcosa che non piace a molti, e soprattutto non piace ai più conservatori. Per queste persone “Shakespeare” è il codificatore della tradizione inglese: niente a che fare quindi con l’Italia. Rigettano questo fatto anche se le evidenze sono innegabili, come per dati certi lo sono, nella realtà, le relazioni che legano John Florio al misterioso e anonimo uomo di Stratford. “Laudata sii, diversità delle creature, sirena del mondo”, scriveva il poeta Gabriele D’Annunzio, ma questo apprezzamento nei confronti della diversità è pronunciato spesso più per propaganda che come qualcosa in cui si crede veramente. Il problema infatti è tutto qui: John Florio nel panorama culturale inglese, a cavallo tra il Cinquecento ed il Seicento, era considerato un diverso, un emigrante italiano di origini ebraiche, per cui scomodo e guardato con sospetto da molti! Come Shylock ne Il Mercante di Venezia. Come d’altronde è scomodo anche adesso, visto il trattamento (sorprendentemente negativo) che ancora gli riservano alcuni studiosi. Ma, al tempo di Shakespeare, le cose non erano diverse, perché parte di quella società che sembrava accoglierlo con benevolenza (gli immigrati protestanti erano ben accolti in una Inghilterra in aperto contrasto con la Chiesa Cattolica), intimamente odiava la sua diversità: pelle scura tipica di un uomo del sud, tratti semiti, cultura esageratamente immensa e soprattutto di derivazione italiana. Roger Ascham, precettore d’importanti personaggi del tempo, parlava della cultura italiana come qualcosa di diabolico, di immorale, insomma da evitarsi. Famoso rimane il suo detto: “Poeta italianato, diavolo incarnato”. Quindi Florio era causa di attacchi xenofobi, tanto più perché era di origini ebraiche e gli ebrei erano stati espulsi dall’Inghilterra intorno al 1200, permettendo loro di rientrare solo dopo il 1640. Ma verso di loro, generalmente, non si nutriva molta simpatia, gli scritti di Christopher Marlowe lo dimostrano. Questo faceva di Florio (1553-1625) un sorvegliato speciale. Che il clima intorno a lui non era dei più amichevoli è evidente soprattutto dagli attacchi che scrittori di successo, suoi contemporanei, come Thomas Nashe e Robert Greene, mossero contro di lui ogni volta che Florio pubblicava qualcosa, attacchi che fino ad adesso nessun studioso ha portato compiutamente alla luce. D’altro canto, la sua enorme cultura, la sua preparazione letteraria, la sua intelligenza sociale, le sue amicizie di altissimo bordo, suscitavano risentimento in molti. Thomas Nashe mosse degli attacchi spietati nei suoi confronti anche perché Florio promosse, presso il Conte di Southampton, la protezione di un giovane proveniente da Stratford-on-Avon, nella contea di Warwick, piuttosto che quella di Nashe stesso. Questo giovane diventerà “Shakespeare”, agli occhi di tutti. E’ interessante il fatto che Florio favorisce, presso il Conte di Southampton, uno sconosciuto senza una preparazione universitaria, forse addirittura incolto (come disse di lui il suo contemporaneo e amico Ben Jonson), piuttosto che un “Wit” come Nashe. Troveremo corpose tracce di ciò che dico in alcuni scritti di Thomas Nashe e negli scritti di Florio, così come in altri scritti. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: aveva firmato la sua condanna a morte. Quindi, nonostante le sue amicizie di alto bordo (il Conte di Southampton, protettore anche di Shakespeare, è una di queste), per Florio era utile rimanere defilato, agire di nascosto (come Thomas Nashe, nell’introduzione al Menaphon di Robert Greene (1589), scrive che Florio facesse realmente), usando delle coperture, delle maschere (è sempre Nashe a dirlo, come vedremo) per esprimere liberamente il suo modo di essere, per evitare accuse di immoralità, e per non essere fisicamente minacciato, come successe diverse volte. Una di queste minacciose situazioni coinvolse anche Giordano Bruno (si veda: La cena delle ceneri di G. Bruno), che nel periodo in cui si recò a Londra (1583-5) frequentò assiduamente John Florio. Il modo di essere di Florio, quindi, doveva apparire il meno possibile talvolta, per non suscitare inutili contrasti e risentimenti: “So che hanno un coltello puntato alla mia gola pronti ad usarlo” ebbe a dire Florio in uno dei suoi scritti. “Essere o non essere, questo è il problema”, se essere costituisce una minaccia per la propria vita. Quando però si presentò l’occasione, per lui, di realizzare i suoi progetti indisturbato, e quindi di essere se stesso senza bisogno di essere in prima persona, colse al volo questa opportunità. L’occasione arrivò quando fece il suo incontro con quel ragazzo di Stratford-on-Avon, che più o meno verso il 1587-’88 approdò a Londra in cerca di fortuna e che di lì a poco permetterà a Florio di far nascere tutte le opere di Shakespeare. Quindi “Shakespeare” come atto di collaborazione, essenzialmente, tra questi due uomini. Le evidenze sono tante, tantissime, ma non vengono prese in considerazione dagli shakespeariani ortodossi, che si limitano a dire che tutto è frutto esclusivo del genio dell’impalpabile e anonimo uomo di Stratford. Le misteriose presenze all’interno delle opere del Bardo sono, per gli ortodossi, la testimonianza dell’enorme voracità che Shakespeare aveva nelle sue letture, niente di più. Ma da più parti viene certificato che William di Stratford non conoscesse le lingue straniere da cui provengono molte di queste misteriose presenze, formate da tutte quelle parole dell’immenso vocabolario usato da Shakespeare per l’ossatura del suo discorso interiore. E allora viene un dubbio: “Come ha fatto Shakespeare ad impossessarsi di risorse letterarie ancora non tradotte in lingua inglese, che sembra conoscere così perfettamente a livello linguistico da escludere che qualcuno le abbia lette per lui e poi gliele abbia sintetizzate?” La risposta è sempre la stessa da parte degli ortodossi: “Ha studiato queste risorse nei ritagli di tempo”. Così, nei ritagli di tempo, tra la stesura di un’opera e l’altra (oltre che tra uno dei suoi tantissimi affari ed un altro), avrebbe letto tutto quello che c’era in circolazione a quel tempo (in inglese, in italiano, in francese, in spagnolo, in tedesco, in latino, in greco, in ebraico, in antico toscano, in oscuro napoletano…), facendosi una solida e profonda cultura su quasi tutto, al punto che, arrivato a Londra da Stratford digiuno di cultura e di capacità letterarie, pochissimo tempo dopo riuscirà ad anticipare il divino Marlowe nella tecnica di composizione letteraria. “Questo è il mistero del genio”, si continua a puntualizzare: però di questa genialità, nella sua vita privata non c’è nessuna traccia. Ma negli stessi anni in cui Shakespeare restò a Londra, e negli stessi ambienti dove aveva vissuto, viveva anche John Florio (i due vivevano fisicamente insieme, come quando condivisero gli stessi ambienti presso il Conte di Southampton che era il loro patrono), quel Florio tanto celebrato dal drammaturgo Ben Jonson per la sua immensa cultura e dalla Frances Yates per quel modo di scrivere così eufuistico da sembrare “Shakespeare”. In più, Florio conosceva (perché presenti nella sua biblioteca personale) tutte le risorse che Shakespeare usò per comporre le sue opere, molte delle quali scritte in quelle lingue che erano sconosciute a William di Stratford. Potremmo ammettere una profonda collaborazione tra i due? “Assolutamente no”, è la risposta della critica ortodossa, solo William di Stratford è l’autore. Ma i ‘fatti’ dimostrano un’altra versione. Questi fatti però sono stati occultati accuratamente, e continuano ad esserlo perché altrimenti emergerebbe una certezza: quei due lavorarono assiduamente insieme alla produzione delle opere di Shakespeare. Questa soluzione, per i ‘tradizionalisti’, comporterebbe un grosso pericolo e cioè la disintegrazione dell’identità culturale inglese. Identità che, comunque, ha sempre vacillato sotto gli attacchi di tutti quelli che, da sempre, hanno cercato una “identità nascosta” per giustificare quella genialità in effetti assente nella vita di William di Stratford, ma che invece compare abbondantemente nella vita privata e nelle opere letterarie di Florio. Così i critici negano l’evidenza, come al tempo di Giordano Bruno i dotti negavano l’evidenza del fatto che fosse la Terra a girare intorno al Sole. La loro cieca ed assurda ostinazione davanti ai dati di fatto, portò Giordano Bruno a definirli “asini”: e loro lo bruciarono. Nelle pagine di questo libro, quindi, verranno evidenziati gran parte di quegli argomenti (e dei fatti certi e documentati) che vengono invece attentamente evitati dall’ortodossia shakespeariana. Sono convinto che le mie idee non distruggano l’identità della cultura inglese, ma anzi la rafforzino dal momento che creano le basi per una comprensione di Shakespeare che, se non diviene chiara e cosciente attraverso Florio, produce solo schizofrenia. D’altronde, ognuno di noi ha un tributo da pagare a qualcun’altro. Noi Italiani abbiamo per esempio un grande tributo da riconoscere alla cultura araba (come dimostra il divino Dante quando parlando di Averroè, filosofo arabo fondamentale per la comprensione di Aristotele, lo definì nella sua Divina Commedia quello che “’l gran comento feo”). Per non parlare del tributo che dobbiamo riconoscere alla matematica araba per aver permesso al pisano Leonardo Fibonacci di impossessarsi di quegli strumenti di calcolo che erano sconosciuti alle matematiche occidentali. Se gli economisti, analizzando i mercati con le serie numeriche di Fibonacci, riescono a fare delle previsioni utili per capire l’andamento dei mercati finanziari, gran parte del merito va anche alla cultura araba. Quindi, perché intestardirsi (come fecero tra gli altri i professori di Oxford con Giordano Bruno) nel sostenere posizioni assurde? Non c’è niente di straordinario nell’ammettere una profonda collaborazione tra Florio e William di Stratford che permise la nascita delle opere di Shakespeare: è un’evidenza! E’ molto più straordinario continuare ad attribuire la paternità delle opere del Bardo, in via esclusiva, ad un personaggio come William di Stratford che, per quel poco che sappiamo di lui, appare essere molto di tutto, e poco di “Shakespeare.” |